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Il dono e la città.

Recensione del libro a cura di Emanuele Alecci

Giacomo Panizza, è un prete bresciano che vive in Calabria da oltre trent’anni. Don Giacomo è noto per la sua coraggiosa lotta contro la ndrangheta la mafia calabrese. Ha fondato nel 1976 a Lamezia Terme la comunità Progetto Sud.  Questa comunità autogestita lavora con persone con disabilità e promuove iniziative di solidarietà e lavoro sociale. Don  Giacomo ha contribuito anche a diverse iniziative della Caritas italiana. Dal 2002 quando ha accettato di occupare uno degli edifici sequestrati dalla ‘ndrangheta, Don Giacomo vive sotto protezione a causa delle numerose minacce e attentati subiti. . Il suo ultimo lavoro Il dono e la città. Sul futuro del volontariato, edito Bibliotheka edizioni e’ scritto in modo semplice e diretto e rappresenta il tratto tipico di Don Giacomo.  L’autore condivide la sua storia, le sue esperienze, da protagonista vivente della storia della Solidarietà del nostro paese. Ma il testo vuole interrogarsi sul futuro del volontariato, futuro  che negli ultimi anni fatichiamo a individuare. E’ fondamentale garantire che il volontariato non diventi un semplice sostituto delle responsabilità pubbliche, ma piuttosto un mezzo per rafforzare gli aspetti liberanti e socializzanti del welfare. E il messaggio che ne esce individua proprio nella trasformazione di servizi essenziali come la salute e l’istruzione in entità commerciali la causa della  marginalizzare del terzo settore che rischia di distorcere il vero spirito del volontariato. È cruciale che il volontariato mantenga la sua identità culturale e politica, operando come un servizio pubblico che va oltre la logica del mercato. Le associazioni di volontariato dovrebbero fungere da catalizzatori per la solidarietà, la condivisione e l’accoglienza, nonché per la generazione di fiducia all’interno delle comunità. La diversificazione del volontariato in settori come la protezione civile, l’ambiente, l’energia, i beni culturali, e l’adozione di stili di vita sostenibili, è essenziale per costruire una società più coesa e giusta. Il volontariato, in tutte le sue forme, può essere pertanto un potente veicolo di legalità e coesione sociale, contribuendo a formare cittadini attivi e responsabili. Il concetto di condivisione e inclusione è centrale nella sua visione e nel suo lavoro, sottolineando l’importanza di partire dagli ultimi per costruire una società più giusta e solidale. La lotta per la dignità individuale e sociale, così come la battaglia contro l’illegalità, sono temi ricorrenti che trovano espressione nel volontariato e nell’impegno civico. Il libro “Il dono e la città” sembra essere un’opera che riflette su questi temi cruciali, proponendo un futuro del volontariato radicato nella reciprocità e nel bene comune. La descrizione del volontariato come un percorso che va oltre il semplice atto di donare beni materiali, ma che include anche il dono di sé, di valori morali, sentimentali e culturali, è particolarmente potente. Questo approccio al volontariato promuove un’idea di comunità basata sulla solidarietà umana e sociale, in contrasto con l’individualismo.Il messaggio di Panizza è chiaro: per realizzare un vero cambiamento e per combattere le ingiustizie, è necessario superare le paure interiori e lavorare insieme per una società dove la dignità di ogni individuo è rispettata e valorizzata.

Pubblichiamo l’ultimo capitolo del libro, dal titolo “Don Tonino e la centrale idroelettrica”:

 

Don Tonino e la centrale idroelettrica

Don Tonino Bello ci legge le seguenti pagine stilate di suo pugno in chiusura del Primo Convegno Diocesano sul Volontariato a Molfetta. Vescovo da pochi mesi, sposa le idealità del nascente Volontariato e invita a raccontarlo alla popolazione don Giovanni Nervo, Luciano Tavazza, Nunzia Coppedé e me, ospitandoci tre giorni in episcopio dove, oltre lui, dimoravano alcune famiglie di stranieri senza tetto.

Nelle vicinanze di un grande fiume, dove le acque precipitano a forma di cascata diventando vorticose, era stata costruita un’immensa centrale idroelettrica. A guardarla da lontano, faceva impressione.

Era tutto un intreccio-di condensatori, di valvole gigantesche, di porcellane lucenti, di commutatori a elevato potenziale. Enormi tralicci sostenevano in aria i cavi dell’alta tensione, che conducevano l’energia elettrica dalla centrale verso la città, dove alimentava i traffici degli uomini, assolveva ai bisogni della gente, metteva in moto le macchinine della moderna civiltà.

Ad appena mezzo chilometro di distanza dall’impianto, c’era la capanna di un contadino. Viveva con la sua numerosa famiglia in un tugurio da quando era stato costretto ad allontanarsi dal fiume perché gli avevano espropriato, con la lusinga di quattro soldi, il pezzo di terra che possedeva. Ora stava male. Veramente male. Soprattutto la sera, quando calavano le ombre. Non aveva luce in casa. Non un televisore, non un frigorifero, non una stufa. Quando andavano a letto, i figli stentavano a prendere sonno perché erano impauriti da quel lamentoso ronzare dei cavi elettrici che, passando altissimi sulla loro capanna, incutevano rassegnazione e mistero.

Fase sentimentale

Un giorno si fermò nei dintorni una squadra di giovani. Venivano da lontano per il campeggio di una settimana. Fecero subito amicizia con la famiglia del contadino e rimasero sorpresi da tanta miseria.

Fu una gara di solidarietà. Condividevano tutto: dai pasti alle escursioni, alle canzoni del bivacco. Soprattutto la sera, nei discorsi attorno al falò, era uno scatenarsi di rabbie impotenti nel vedere così vicini i simboli della civiltà del benessere e non poterne utilizzare i vantaggi.

Non certo per la malvagità degli uomini, ma per mancanza di strutture intermedie che facessero passare la corrente d’alta tensione dai paurosi tralicci alle minuscole esigenze della capanna.

La settimana finì presto. Quei giovani, prima di partire, vollero lasciare alla famiglia del contadino il televisore portatile, delle stufe a gas, una bellissima radio a transistor, una valigia frigorifero e, soprattutto, un costoso microgeneratore di corrente con le batterie ancora buone. Tra abbracci, lacrime e saluti, e con la promessa che ogni mese qualcuno sarebbe venuto dalla città per ricaricare le batterie del microgeneratore, i giovani se ne andarono, innamorati della famiglia della capanna. Era terminata la fase sentimentale» del volontariato.

Fase politica

La faccenda delle batterie andò avanti per qualche mese. Poi qual cosa comincio a guastarsi; ora un fusibile, ora un relais, ora un cavetto. Era più la spesa che l’impresa, anche se sotto tutti questi interventi

C’era tanto, tantissimo amore. Fu così che quei giovani (ogni sera si riunivano nella sede del volontariato per interminabili discussioni) decisero che bisognava cambiare metodologia d’intervento. Era assurdo che tanta energia elettrica, organizzata dal grande sistema e prodotta sulle sponde del fiume, dovesse escludere dai suoi benefici quella famiglia di poveri che vi abitavano accanto.

Oltre che assurdo, era scandaloso e provocatorio. Fecero il diavolo a quattro. Stamparono allora migliaia di volantini, affissero manifesti, provocarono l’attenzione pubblica in mille modi sul problema di quella famiglia. Chiedevano, in ultima analisi che le istituzioni pubbliche intervenissero per mediare i provvedimenti, creando strutture intermedie tali da non escludere nessuno. Ruppero a tal punto l’anima della gente che un giorno, in seduta congiunta, furono ricevuti dal sindaco, dal consigliere regionale prossimo a diventare assessore, e dall’assessore ai servizi Sociali del Comune.

Il più audace dei giovani prese la parola e disse pressappoco così: «Onorevoli signori, non siamo venuti qui a censurare il vostro operato. Sappiamo bene qual è il vostro zelo. Si deve a lei, signor consigliere regionale, se la Regione ha stanziato tanti miliardi per la costruzione della centrale idroelettrica. Si deve a lei, signor sindaco, se in città è stata disposta tutta una rete di sfruttamento intensivo delle ricchezze energetiche che ne sono derivate. Anche lei, assessore comunale, ha fatto tanto perché questa ricchezza venga distribuita senza sperequazioni. Però la vostra azione, pur benemerita, produce uno scarto umano residuale che, nel dialogo dei massimi sistemi, rimane tagliato fuori dal discorso. In altri termini, ci sono delle case (come lì, lungo il grande fiume) in cui la vostra energia ad alta tensione non arriva, perché mancano le cabine intermedie che riducano i voltaggi, che depotenzino le cariche, che entrino nei piccoli circuiti senza fulminarli.

Noi siamo venuti qui non a demonizzarvi, ma a farvi l’inventario di tutte le lampadine fulminate dal sistema, anzi escluse addirittura da tutte le reti elettriche della nostra civiltà. La famiglia che sta nei pressi del grande fiume è solo il simbolo di tutti coloro che il sistema ignora, danneggia, esclude, se non addirittura calpesta. Anche noi volontari siamo un simbolo. Il simbolo di tutto ciò che dovrebbe umanizzare le cose e farle giungere all’uomo, su misura, senza fulminarle. Ma soprattutto siamo il simbolo di una cultura nuova che non accetta più la privatizzazione del pubblico, ma esige la pubblicizzazione del privato. Con il nostro impegno, a volte fatto anche di paradossi, vorremmo vaccinarvi contro l’ideologia di uno stato onnipotente. Con le nostre invenzioni, vorremmo sottrarvi al mito della legge che si illude di coprire tutti i bisogni, o degli schemi previdenziali che vogliono pianificare tutti gli interventi, o delle articolazioni dei codici che pretendono di disciplinare tutte le relazioni umane e i rapporti personali. Ecco perché, onorevoli signori, non dovete aver paura di noi o temerci come forze concorrenziali. Anzi, dovreste augurarvi che il volontariato non si estingua mai, ma si incrementi, anche quando vi darà fastidio e quando, fino all’esasperazione, vi solleciterà a mettere i poveri, gli ultimi, quale principio architettonico del vostro impegno politico. State tranquilli: non vogliamo assolutamente gestire i bisogni della gente. Desideriamo solo, senza secondi fini, collaborare con voi, coprendo i vuoti lasciati dalle strutture istituzionali e, soprattutto, costituendo la vostra coscienza critica.

E ora provvedete perché alla famiglia del grande fiume giunga la corrente. Le cabine intermedie che costruirete, ricordatevelo, sono il simbolo della mediazione umana nostra e di quanti, come noi, vogliono essere donatori a tempo pieno del loro tempo libero». Il sindaco, il consigliere regionale e l’assessore ai servizi sociali non applaudirono. Ma solo perché erano in tre e non avrebbero fatto molto rumore. I giovani scesero dal municipio, contenti di aver portato a termine la fase politica del loro volontariato.

Fase pedagogica

Dopo poche settimane, nella casupola del contadino, presso il grande fiume, la luce elettrica splendeva come fosse giorno. La storia non finisce qui. Siccome cominciarono ad arrivare al contadino delle bollette molto salate, i giovani volontari intrapresero delle indagini laboriose. Una prima volta si accorsero che la colpa era sempre del sistema: sì, c’erano delle perdite di corrente a causa dell’impianto fatto male dagli operai dell’Enel (farse un po’ in fretta, come succede quando i destinatari di qualche beneficio sono i poveri). Una seconda volta scoprirono che c’erano degli errori di rilevamento dei dati del contatore o in altri marchingegni tecnici. E, infine, notarono che quella famiglia, non abituata a certe diavolerie moderne, faceva un po’ di spreco. Quei giovani capirono che cominciava ora una terza fase del loro volontariato: la «fase critico-pedagogica». Inoltrarono le necessarie proteste e fecero rettificare le bollette. Ma, soprattutto, si misero accanto a quella famiglia povera, per educarla al risparmio, alla sobrietà, all’equilibrio economico, a una sana conduzione di tutta la gestione domestica. Tante fatiche furono premiate dal successo. Passarono gli anni. Il figlio più grande del contadino diventò ingegnere e, più tardi, direttore dell’Enel. Ecco l’ultima notizia. Pare che il nuovo direttore abbia deciso perentoriamente che tutti i programmi di ristrutturazione e di ammodernamento dell’azienda debbano tener conto di una strana frase che lui stesso, di proprio pugno, scrive in calce a ogni progetto. L’aveva sentita risuonare per la prima volta una sera lontana, quando era ancora bambino, sulle labbra di giovani amici, attorno a un falò, sulle sponde del grande fiume. Quella frase che splendido masso erratico, gli era rimasta impressa nel deserto di altre memorie, suona così: «Partire dagli ultimi».

 

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