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Ridefinire il volontariato? Lettura critica di un testo

Renato Frisanco ci propone una recensione- commento dell’ultimo libro di Emanuele Rossi e Luca Gori sulla definizione di volontariato contenuta nella Riforma del Terzo Settore.

 

La nuova norma

Il testo “Ridefinire il volontariato” (University Press, Pisa 2021), a cura di Emanuele Rossi e di Luca Gori, affronta a più voci la definizione di volontario riportata dal Codice di Terzo settore (art. 17 comma 2). Il titolo del testo sembra evocare una svolta culturale nella disciplina giuridica del volontariato tanto che il contenuto di tale articolo viene analizzato nei vari capitoli in ogni sua unità lessicale. Con esso si chiarisce per via legislativa che l’azione volontaria del singolo agente è un valore in sé e ha fondamento costituzionale. Altra peculiarità della norma, che come tutte le norme è frutto della cultura del tempo (altrimenti non si cambierebbero), è che recepisce e asseconda la tendenza dei cittadini a svolgere attività di volontariato ovunque, individualmente, in contesti associativi informali o strutturati. E’ indiscutibile che il perimetro del nuovo volontariato si sia dilatato, come attesta il crescente numero di persone che si mobilitano come cittadini attivi “in favore della comunità e del bene comune” in maniera del tutto autonoma, in formazioni sociali informali e senza prendere impegni duraturi nel tempo. Ed è cresciuta, con il loro numero, anche la capacità attrattiva di fondazioni, cooperative sociali e associazionismo in generale. Questa enfasi sul volontario e sull’azione volontaria ha ispirato recentemente anche l’elaborazione della Carta dei Valori dell’azione volontaria[1].

Facciamo ora un passo indietro per comprendere il percorso del volontariato avviato dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, con i suoi “padri” fondatori, i convegni toscani e le prime Conferenze nazionali che hanno dato nuova soggettività al movimento solidaristico. E’ in questo “brodo” culturale che è maturata nella società, e quindi nella cultura giuridica, quella “definizione chiara e comprensiva” di volontario e di volontariato che il testo di Rossi e Gori rileva.

Il volontariato moderno

Fino agli anni ’70 il volontariato era un fenomeno duale, caratterizzato dall’intervento di poche storiche organizzazioni di volontariato (come ANPAS, Misericordie, Vincenziani), e dai molti volontari che operavano singolarmente dentro le istituzioni assistenziali e gli scarsi servizi dell’epoca, così che non pochi Comuni si erano dotati di appositi Albi dei volontari per attingere a tale risorsa. Negli anni ’80 il volontariato segna una prima transizione per cui da fenomeno basato prevalentemente su singole persone, motivate soprattutto da istanze di fede o personali e attive nelle strutture contenitive dei problemi sociali del vecchio Welfare, diviene solidarietà organizzata di una molteplicità di gruppi che si mobilitano in ogni ambito e settore della vita sociale sulla base di progetti, di intese o di convenzioni con le istituzioni pubbliche. Con queste diventano costruttori di un Welfare più ampio e avanzato. Non è un caso se il volontariato cosiddetto “moderno” viene fatto risalire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso e fin dal primo convegno delle organizzazioni di volontariato (Napoli 1975) i cui rappresentanti, oltre al valore della testimonianza, reclamavano la dimensione politica del loro operare ponendosi come agenti di trasformazione sociale, di cambiamento delle condizioni che generano ingiustizia, disuguaglianza, inefficienza nella risposta i bisogni dei cittadini. Quel momento ha segnato anche l’inizio del volontariato come movimento data l’esigenza lì espressa di dare continuità ad un dialogo a valenza politico-partecipativa. Viene così concepito il Mo.V.I. che inizia a operare nel 1978. Si avvia così una seconda transizione: dal volontariato dei tanti gruppi che operano isolatamente senza confrontarsi tra di loro ad un volontariato propenso a collegarsi, a coordinarsi, a fare rete, per lavorare insieme su specifici progetti o per concordare strategie e azioni unitarie e avere così maggior peso e incidenza politica nei vari organismi partecipativi. Infatti il volontariato è stato via via chiamato a collaborare con le istituzioni ai Tavoli, prima solo consultivi (anni ‘80 e ’90 del Novecento) e poi deliberativi delle politiche sociali (es. Piani di Zona della L. 328/2001) così che la definitiva affermazione di soggetto che partecipa alla co-progettazione e co-programmazione (ribadita dal D.L. 131/2020) è l’esito recente di quel percorso.

Proprio per sostenere la sua valenza partecipativa e di interazione costruttiva con le istituzioni il “volontariato della 266” non poteva rinunciare ad essere anche entità rappresentativa attraverso specifici coordinamenti (Convol), anche di settore (es. Conferenza nazionale Volontariato Giustizia), organismi consultivi nazionali o regionali (Osservatori e Conferenze) e, insieme alle altre componenti, del Terzo settore (Forum Permanente del Terzo Settore e relativa Consulta del Volontariato). Inoltre per dare sostegno operativo (e con esso autonomia) alla nascita consistente di tanti gruppi sono stati istituiti i Centri di Servizio del Volontariato, “a disposizione delle organizzazioni di volontariato e da queste gestiti al fine di sostenerne e qualificarne l’attività”[2]. A seguito di tali processi il volontariato si configura come attore di un sistema composito dove interagisce con istituzioni pubbliche, enti di Terzo settore nel suo complesso, Fondazioni ex-bancarie con i vari organi partecipativi e di controllo. In questo scenario il volontario individualizzato è sullo sfondo, non incide e fino all’inizio del nuovo secolo non sembra avere rilevanza statistica. Le cose cambiano con le dinamiche di trasformazione sociale della società (processo di “individualizzazione”) e con l’allargamento dei campi di intervento del volontariato, sempre più propenso all’esercizio di una azione civica per i “beni comuni” del quartiere urbano o del contesto di vita (il verde, l’acqua, il parco giochi, l’arredo urbano, la scuola aperta al territorio, la biblioteca di quartiere o condominio…) dove la partecipazione è soprattutto di singoli, o tuttalpiù di gruppi informali.

L’articolo 17 comma 2 della Riforma

L’articolo 17 della Riforma amplia l’art. 2 della L. 266 del 1991 che concepiva l’azione volontaria in funzione dello sviluppo, allora crescente, della solidarietà di gruppi. D’altra parte lo sviluppo di questi (circa 45 mila unità note nel 2014) è stato terreno di coltura della solidarietà che innerva oggi anche l’iniziativa del volontariato individualizzato.

L’affermazione della singolarità della scelta, “libera” oltre che “spontanea e gratuita”, è indiscutibile sul piano ontologico ed è stata peraltro ribadita da una sentenza della Corte Costituzionale (n. 75/1992), intervenuta poco dopo la L. 266 per riconoscere nel volontariato “un modo d’essere della persona nell’ambito dei rapporti sociali”. Inoltre con l’emanazione del “principio costituzionale di sussidiarietà” (art. 118 u.c.) anche il cittadino singolo può realizzare in autonomia un’attività di “interesse generale” che il Pubblico è tenuto a sostenere. Si può dire, con Gregorio Arena, che l’art. 17, 2c. del CTS e l’art. 118 u.c. si intersecano e si completano a vicenda.

Se nella forma giuridica del Codice si attua uno spostamento di paradigma dall’organizzazione di volontariato (e dall’attività di volontariato) al soggetto agente, è altresì evidente che la “cultura” e l’evoluzione del volontariato moderno, dagli anni ’80 in poi, rimarcava non da meno la priorità della persona, con le sue motivazioni e intenzioni, per un’azione volontaria dotata di “visione”, e maturata soprattutto dentro un’organizzazione di volontariato quale strumento per operare meglio o più incisivamente. Le testimonianze documentali sono al riguardo da manuale. Infatti il valore soggettivo, personalistico della scelta di fare volontariato è centrale nella concezione che ne avevano Tavazza, Nervo, Martini e Ardigò, che puntualizzavano in ogni momento nei loro scritti, ancora attuali, l’importanza delle motivazioni fondamentali a valenza interiore del volontario, nella dimensione dell’essere[3]. La stessa Carta dei Valori del Volontariato, manifesto largamente condiviso dal mondo del volontariato nel 2001, anno della sua emanazione, oltre a precisare che il volontario “opera in modo libero, e gratuito”, “in forma individuale, in aggregazioni informali e in organizzazioni strutturate”, prevede per tutti atteggiamenti e valori compatibili con tale scelta, non nel solo spazio temporale del loro impegno volontario, bensì nelle 24 ore. Per cui “la dimensione dell’essere (cittadino solidale) è per il volontario ancora più importante di quella del fare” (art 10 CdV).

Nella prima definizione proposta da Tavazza (1975) “il volontario è una persona che, con le sue diverse matrici, porta in sé una forte carica utopica, di “profezia”, perché senza questa carica in questo tipo di impegno non è dato di durare a lungo”. E specifica subito il significato di carica profetica perché “non siamo un gruppo di paravento a nessuno….la nostra utopia è di cercare insieme quanto è possibile e non è ancora stato inventato per umanizzare la società in cui viviamo”.

L’appiattimento della solidarietà organizzata nel Codice del Terzo settore

Una riflessione va invece all’occasione persa dal legislatore che – preoccupato dal dare il giusto rilievo al volontario singolo e libero – non ha altrettanto chiarito e reso comprensibile il “valore aggiunto” della condivisione tra volontari nella dimensione del gruppo, di obiettivi e iniziative a valenza culturale e politica difficilmente raggiungibili dalla singola persona o dalle tante singole persone ovunque operanti. Ed è facile alludere alla sostanziale indistinzione del volontariato organizzato rispetto alle altre realtà del Terzo settore, ignorando le sue funzioni peculiari: la diffusione della cultura della solidarietà (ad esempio, nelle scuole ci vanno i gruppi), l’advocacy (anzitutto nella programmazione delle politiche e nella valutazione dei servizi), l’esplorazione dei bisogni (antenna radicata e vigile nei territori), la sperimentazione di risposte innovative (nuovo welfare). E così restituendo alle organizzazioni che operano con “profezia” nell’interesse generale un adeguato rilievo, e con esso la salvaguardia della loro autonomia da garantire attraverso il giusto sostegno economico e logistico (sedi) piuttosto che con una indiscriminata e forzata partecipazione a bandi. Se i gruppi di volontariato hanno svolto un ruolo essenziale nel secolo scorso per riqualificare il Welfare (dalla monetizzazione dei bisogni ai servizi per tutti), oggi nella crisi della pandemia non hanno avuto un ruolo meno importante nel supportare e coordinare gli aiuti, altrimenti caotici, interagire con le istituzioni di protezione civile, nell’andare oltre la cerchia dei propri “assistiti”, nell’attrarre nuovi volontari giovani e sostituire i più anziani, nel presidiare i bisogni e diffondere fiducia e speranza tra i cittadini (“noi ci siamo”). Senza la necessità di gestire servizi molto professionalizzati o “ibridarsi” assumendo le sembianze di altre realtà di Terzo settore. Certo occorre ora lavorare sulla cultura della condivisione interna alle OdV per rigenerare partecipazione e ideazione, capacità di inclusione e valorizzazione dei giovani perché siano protagonisti in positivo. Tavazza direbbe che serve un grande sforzo formativo.

I rischi per i volontari dentro le realtà di Terzo settore

Leggendo poi nel complesso il testo della Riforma, si ha l’impressione che la ratio volta a mettere a disposizione del vasto mondo del Terzo settore i volontari, sia più orientata ad assicurare alle diverse realtà le risorse umane necessarie per sopperire al compito loro affidato, quello di far fronte alla crescente domanda di servizi in una società caratterizzata da un Welfare calante, da stagnazione economica e dalla crescita delle povertà e delle disuguaglianze sociali. E’ questa una tendenza che risale dagli anni ’90, almeno dal primo tentativo di “delega” al Terzo settore con la concessione del 5 per mille[4]. Non a caso una delle due motivazioni per cui si ritiene indispensabile il contributo dei volontari nell’impresa sociale è la “sostenibilità economica, poiché spesso si tratta di imprese di piccole dimensioni e con maggiori difficoltà a stare sul mercato rispetto alle imprese di capitali”[5].

Vi è piuttosto il rischio di un divario tra l’aspetto ideale, normativo dell’impegno personale nel volontariato e quello fattuale, riscontrabile nella realtà, con il profilarsi di una serie di problemi dentro le organizzazioni, profit, non profit o pubbliche.

Sarebbe interessante valutare con dati di ricerca quanto effettivamente sia libero, personale, spontaneo l’impegno di singole persone dentro organizzazioni di terzo settore molto strutturate e organizzativamente complesse e meno disponibili alla partecipazione. Il rischio è quello che dietro la mitizzazione del volontario singolo vi possa essere uno scopo strumentale, quello dell’utilizzo del “lavoro gratuito”. E’ un caso che i volontari delle imprese sociali non partecipino alla governance di queste, pur se possono essere numericamente pari ai lavoratori? Come può allora il volontario contribuire “in modo originale al perseguimento dell’interesse generale”, anche come “figura di snodo tra l’impresa sociale e gli altri enti esterni”? Altrimenti come viene riconosciuta la dimensione politica del volontariato? E come possono esercitarla in un contesto più ampio di quello di una singola organizzazione se non è previsto un luogo-momento riflessivo, di confronto, scambio e condivisione tra rappresentanze significative di volontari.

Vi è poi il problema della “volatilità” del fenomeno, inquadrata da Gregorio Arena nella pubblicazione dove trovano cittadinanza anche i “volontari per un giorno” (momento di aggancio?) e “questo crea indubbiamente dei problemi dal punto di vista della incisività degli interventi, della loro qualità, della durata, ecc. perché fa venire meno il valore aggiunto rappresentato dall’organizzazione, dalla professionalità e dalla permanenza nel tempo che sicuramente gli enti del Terzo settore sanno garantire”[6].

In una recente presentazione dell’art. 17 comma 2[7] si legge anche di un volontario che è chiamato a farsi naturalmente “costruttore” di Welfare, “sapendo che la propria azione avrà un impatto politico e modificherà i rapporti all’interno del contesto di riferimento”. Sono le stesse potenzialità che un tempo si accordavano alle OdV. Viene da chiedersi se può il singolo volontario essere un agente trasformativo di tale portata. Non risente questo di un clima di celebrazione dell’“individualismo virtuoso” da opporre all’”individualismo libertario” proprio del nostro tempo?

Altro tema dei volontari singoli è quello della formazione. La Carta dei Valori del Volontariato rispetto al comma due dell’art. 17 del Codice aggiunge un elemento di non poco conto quando precisa che il volontario non solo “mette a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità” ma lo fa “promuovendo risposte creative ed efficaci ai bisogni…o alla realizzazione dei beni comuni”. Un paradigma identificativo del volontariato è anche l’innovazione e questa richiede una “formazione ricorrente”, come diceva Tavazza, cosa che è difficile oggi garantire ai volontari singoli e dispersi nelle varie organizzazioni, ed è tutto da vedere se i CSV, la cui missione è stata anch’essa in parte ridefinita, saranno in grado di farsene carico.

I rischi per l’identità di volontario e del volontariato

Infine tra i rischi vi è anche quello di attribuire la definizione di “volontario” ad una platea sempre più estesa di soggetti che compongono quello che qualcuno considera il “polimorfismo” del volontariato e così riproponendo la confusione che ha molto attenuato l’identità del volontariato negli ultimi venti anni: ci sono i giovani del servizio civile volontario, del programma “garanzia giovani” o di eventi come l’Expo (dove volontario è aggettivo, non sostantivo), i cooperanti delle ONG (solidaristicamente ma non gratuitamente impegnati), i volontari tout court dell’associazionismo delle attività del tempo libero “pro-associati” (gratuità ma non solidarietà), gli utenti che garantiscono qualche prestazione dietro un corrispettivo sociale o del welfare generativo (“la responsabilità richiede libertà e viceversa” precisa Elena Innocenti[8] che indica dei paletti), ai volontari (forzati) della riabilitazione sociale nelle organizzazioni di Terzo settore, come i “minori messi alla prova” o gli adulti fruitori di misure alternative alla detenzione, se non anche gli immigrati da includere. Possiamo aggiungere anche i “volontari per un giorno”, per non parlare dei donatori di sangue o dei cittadini che si prodigano per “amici, vicini e conoscenti” (tutti considerati “volontari” nelle Indagini Multiscopo Istat su “Aspetti della vita quotidiana”).

Va pertanto ribadito che diversamente da ogni altra azione di utilità sociale l’intervento del volontario ha delle implicazioni importanti circa i valori che vengono trasmessi e la qualità della relazione con i beneficiari perché solo la gratuità permette il riconoscimento della pari dignità dell’altro consentendo rapporti realmente simmetrici tra persone, non tra i ruoli distinti di chi dà e di chi riceve.

Dopo il Codice del Terzo settore il volontariato ha subito un’ulteriore ingerenza legislativa che ne mette seriamente in discussione l’identità. Il testo di Rossi e Gori in premessa cita il decreto-legge n. 14 del marzo 2020 che ha disposto che, durante l’emergenza Covid-19, si può sospendere l’incompatibilità tra la qualità di volontario e “qualsiasi forma di rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività di volontariato”[9]. Per la prima volta viene intaccato un caposaldo della disciplina del volontariato così da suscitare il ragionevole dubbio che sia possibile “una “ibridazione” a tempo, fra le due qualità di lavoratore e volontario”[10]. Di cui è conseguente l’affermazione che con il tempo potrebbe esservi “bisogno di un adeguamento della disciplina: ad esempio se le esigenze ritenute contingenti in tempo di pandemia divenissero, per la loro diffusione e radicamento sociale, come elementi qualificanti”. Sarebbe questa la “virtualità espansiva verso il futuro”? Ecco emergere i fantasmi dell’uso del volontariato come forza lavoro sostitutiva, del suo ruolo ancillare, dell’essere governato dall’alto a seconda di un disegno strumentale, e quindi il dubbio della sua relativa inadeguatezza che richiede “l’introduzione di un fattore rafforzativo” (in termini di remunerazioni, di tutele previdenziali, di incentivi). Di questo passo è la fine del volontariato.

Risignificare il volontariato (anche quello organizzato)

Più che “ridefinire” il volontariato si tratta di “risignificarlo” a partire dalla sua piena soggettività perché possa “rigenerare” sè stesso e la società. Occorre quindi ri-focalizzare l’attenzione sulla sua identità (valori-requisiti intangibili) e sulla sua missione storica, del “qui ed ora”, in tutte le sue componenti, quelle singolarmente impegnate e quelle organizzate, queste ultime però capaci di rappresentare istanze e bisogni dei cittadini e delle comunità negli organi partecipativi del Terzo settore e a tutti i livelli di governo del Paese. Ma anche di comunicare meglio e più diffusamente il valore della solidarietà perché l’evidente declino di questa nell’ultimo ventennio è da considerare una grande sconfitta del volontariato.

Anche il forte orientamento dei cittadini ad una partecipazione libera per la salvaguardia e lo sviluppo dei beni comuni è una frontiera importante, pur se l’impegno dei volontari è connotato da scarsa continuità. Questa disponibilità nel segno della responsabilità – soprattutto se condivisa con le amministrazioni locali – e della reciprocità con gli altri, permette di costruire comunità e seminare quella cultura della partecipazione che in un futuro auspicabilmente prossimo potrà essere rafforzata con nuovi strumenti organizzativi (ad es. imprese sociali di comunità a partecipazione volontaria) e, in ogni caso, sortire effetti di allargamento della democrazia reale.

Ernesto Rossi nel chiudere il testo auspica proprio l’approdo verso una società più democratica a cui il volontariato può contribuire in misura importante se in grado di farsi portatore di una specifica visione di società (“più accogliente e fraterna”) e di “un progetto più generale di trasformazione sociale”, come è nel suo DNA. Ma è proprio questa conclusione a mettere in dubbio l’efficacia di quello “scarto rispetto al passato” che il Codice con l’art. 17.2 avrebbe prodotto spostando la centralità sulla figura del volontario.

[1] La Carta, realizzata con la regia della Fondazione Zancan e ufficialmente presentata il 30 aprile 2021, è una delle iniziative promosse da Padova Capitale Europea del volontariato.

[2] Essi dovevano operare anche a sostegno delle organizzazioni di volontariato non iscritte ai Registri regionali, mentre con la Riforma del Terzo settore chi rimane fuori dal RUNTS non può beneficiare dei servizi dei CSV.

[3] Luciano Tavazza le ha così formulate: “l’essere per sé: come ricerca e verifica della propria identità personale; l’essere per gli altri: come espressione del proprio altruismo in vista della promozione dell’altro; l’essere con gli altri: come condivisione della condizione di bisogno per uscirne insieme”.

[4] Lo stesso si può dire dell’otto per mille alle Chiese, ma è nota la tendenza alla delega, anche per i bisogni di tipo sanitario, sui territori diocesani.

[5] Cfr. il contributo di Borzaga C e Sforzi J., Complementari e non sostitutivi. Il volontariato nell’impresa sociale, in “Ridefinire il Volontariato”, op. cit. pag. 105.

[6] Arena G., “Svolge attività in favore della comunità e del bene comune” in  (a cura di) Rossi E., Gori, L., Ridefinire il Volontariato, pag. 52.

[7] Cfr. di Gori L., Ridefinire il volontariato per promuovere risposte. Per un necessario cambiamento del Terzo settore, 29 marzo 2021.

[8] Innocenti E., “Per sua libera scelta”. Volontariato come corrispettivo di prestazioni pubbliche? in (a cura di) Rossi E., Gori, L., Ridefinire il Volontariato, pag. 33.

[9] Gori L., Premessa, op. cit., pagg. 7-8.

[10] Gori L., Premessa, op. cit., pag. 9 (compresi i virgolettati a seguire)

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