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Volontariato: crisi di identità non può che essere crisi di rappresentanza

Di Andrea Pancaldi

Giornalista, esperto di servizi di informazione e documentazione nel campo dei servizi sociali, Bologna

 

 

È ormai da molti anni, si può dire dall’inizio degli anni ‘90, dopo la caduta del muro di Berlino, la crisi delle forme tradizionali della rappresentanza, partiti e sindacati, e l’appello alla società civile, generoso da alcune parti, rivelatosi spesso, al di là delle intenzioni, strumentale e cooptativo , che il volontariato si trova dentro a dinamiche di trasformazione, identitarie, di senso e organizzative molto complesse.

L’appello al pre-politico prima, il sorgere quasi contemporaneo del dibattito sul terzo settore poi, più economicistico che sociologico, oltre ad un cambiamento del lessico, hanno innescato una fase che ben descrivono le parole che prendo a prestito da Giuseppe Cotturri ed Aldo Bonomi: una “transizione lunga” e una realtà “sospesa tra non più e non ancora”, scritte in volumi editi a fine anni ‘90 (1), ma ancora valide.

Una società poco attenta alle giovani generazioni, la crisi della partecipazione politica, alcune disfunzioni della riforma del terzo settore, le dinamiche di ibridamento tra profit e non profit, l’accentuarsi delle pratiche di disintermediazione della politica, le retoriche sull’inclusione, la comunità, le differenze, hanno reso ancora più complesso il quadro e il lessico che lo interpreta. Ragionare di volontariato è un navigare a vista e fare rappresentanza un compito difficile, inevitabilmente parziale, foriero di pericoli di semplificazione e scorciatoie, faticoso e inevitabilmente poco gratificante nel breve/medio periodo.

Provare a ragionare sul costruire rappresentanza

Per ragionare attorno al nodo del costruire rappresentanza (detta diversamente la rappresentanza ha una sua natura, ma è anche la somma dei sottoprodotti di altre dinamiche), che mi pare più interessante della composizione della rappresentanza stessa (…parafrasando…“il viaggio è più interessante della meta”) provo a enucleare tre nodi di ragionamento, tenendo conto che i due aspetti sopra citati sono facce diverse della stessa medaglia.

Il primo che sottolinea che il volontario, figura principe dell’impegno civile a cavallo tra ‘900 e nuovo millennio, ora non è più solo e condivide la scena con altre figure che abitano la società di mezzo, pur con differenziazioni nei diversi contesti e qui penso al richiamo al volontario nei contesti di protezione civile, richiamo al termine che tende a sfumare, ad esempio, nelle pratiche riferite alla difesa dei diritti civili o all’ambiente.

Il secondo prova a ragionare sul rapporto tra terzo settore e politica, facendo riferimento anche ad alcuni elementi che indicano il riaffacciarsi sulla scena di dinamiche di consociativismo, sia a destra che a sinistra, pur con differenti modalità, tema che avevamo conosciuto nei decenni pre muro di Berlino e che si era sfumato per molti anni.

Il terzo è un insieme di tante sottolineature che derivano dalla parabola del volontariato negli ultimi 10/15 anni e che sono sostanzialmente gli elementi di quel “detta diversamente”, ovvero di tutti quei fattori, espliciti o impliciti che appaiano, che in qualche modo impattano sui processi del costruire rappresentanza.

Tre personaggi in cerca di autore

Nella commedia di Pirandello i personaggi sono sei, qui scendiamo a tre, ma rimane sempre, come nella commedia, un tema di incomunicabilità, o di qualcosa di simile, che accomuna le diverse figure che abitano la società di mezzo, in un qualche modo simili, ma che camminano su binari paralleli. Qual è la figura che occupa lo spazio tra cittadini e politica e quali sono le dinamiche che incarna, le retoriche che attiva? Dai primi anni ‘90 questa domanda è uno dei temi centrali della lunga fase di crisi e spaesamento della cosiddetta “sinistra” e di ridefinizione identitaria di quella terra di mezzo che assume via via nomi diversi: prepolitico, società civile, corpi intermedi, associazionismo, terzo settore, cittadinanza attiva (ed altri se si passa dal dibattito politico/sociologico a quello economico), parola magica che definisce il terreno dove avviene qualcos’altro di magico; la “partecipazione” su cui molto ci sarebbe da riflettere su vecchie e nuove forme, lessici…seduttivi immaginari. Detta anche qui diversamente, se è ancora quella cantata da Giorgio Gaber nel 1972 (“…libertà è partecipazione…”) e se e cosa di quella declinazione ne sia rimasta (2).

Cominciò Marco Revelli nel 2001 col passaggio tra militante e volontario descritto nell’ultima riga di “Oltre il 900″(3), anche sull’onda di molte ricerche che indicavano il proseguire nel volontariato la precedente militanza politica. In Emilia Romagna il dato era allora il doppio delle media italiana (4).

Poi la politica, riassestatasi dopo l’appello alla società civile degli anni ‘90, nel 2012 richiama a se i tanti accorsi a collaborare alle primarie del centro sinistra: “Sono militanti, non chiamateli volontari” (5). Passano alcuni altri anni, emerge chiaramente la questione giovanile e quella dell’antipolitica e nel 2018 nuovo cambio di paradigma con un nuovo arrivo sulla scena: “Il volontariato che cambia: addio militanza, benvenuto attivismo”(6) che ha forse la sua data e luogo di nascita con l’Expo di Milano del 2015 (7).

Tempi duri per il volontario e per il militante, anche per una riforma del terzo settore che bada più al volontario singolo che alle organizzazioni e per una partecipazione politica sempre più in calo.

L’attivista per ora pare in cima alla classifica e se ne afferma anche la superiorità identitaria. Teorizza Corinne Reier: “Nella visione di ActionAid l’attivista è quella persona che si mobilita all’interno della propria comunità …. il suo lavoro è strettamente politico, seppur non necessariamente partitico, ….il volontariato rimanda invece a delle dinamiche più top-down in cui la persona segue e supporta pezzi specifici del lavoro dell’organizzazione senza contribuire a influenzarne la strategia più ampia” (8). Processo di svalutazione della politicità del termine volontario che trova una ulteriore sponda, ahimè per me che bolognese sono, ancora una volta a Bologna, come riporta l’agenzia redattoresociale a margine della creazione della Alleanza per le transizioni giuste (promossa da Comune Bologna, Fondazione innovazione urbana Comune Bologna, Arci, Fondazione Feltrinelli): “Il confronto sui nuovi attivismi è partito dalla riflessione su cosa ci serve per poter cambiare davvero le cose, assumendo la possibilità di essere imperfetti nelle azioni ma avendo ben presente che è necessario esserci, con i propri corpi e sul web. Dal circolo Arci Epyc di Palermo, che ospita la casa dei rider, alle “mamme di merda” che si battono per una scuola più aperta ed inclusiva, è emersa la forza di una cittadinanza attiva che va oltre lo stereotipo del volontario come figura neutra che si pone solo al servizio“. (9).

Luciano Tavazza e Giovanni Nervo, padri del volontariato “moderno”, quello, semplificando, che si occupa non solo di intervenire concretamente nelle situazioni, ma anche di agire politicamente sulle cause che stanno a monte dei problemi (…di cui ai volumi della collana “Volontari perchè” curata da Tavazza ed edita, proprio a Bologna, dalle edizioni Dehoniane nei primi anni ‘80), si rivolterebbero nella tomba, ma in parte forse è solo un difetto, non di poco conto, di storicizzazione del tema.

Un primo ragionamento è quindi su come attivisti, volontari e militanti concorrano a delineare quantità e qualità della rappresentanza e dei diversi luoghi in cui questa si esprime; una geografia piuttosto complessa e in movimento.

Ruolo politico e rapporti con la politica

Viviamo una fase di complesso intrecciarsi tra politica, cittadinanza e terzo settore, che tende a rigenerare, rimodellare il rapporto tra politica e cittadini, tra stato e società. Emergono anche tentazioni, sulle e tra le righe, di creare nuove forme di consociativismo più in linea con le sensibilità e i linguaggi del tempo, all’interno delle dinamiche partecipative, che si vanno ad intrecciare con le fragilità che a volte emergono nella democraticità e nei processi di rappresentanza delle organizzazioni della società civile.

In generale gli esempi di queste dinamiche possono essere tanti ed anche estremamente diversificati nel tempo e nelle diverse realtà territoriali. Si va dalla sostanziale logica cooptativa della politica presente a volte nei suoi appelli elettorali alla società civile (pensiamo ai tanti presidenti di organizzazioni del terzo settore migrati in politica…PD soprattutto, e il bilancio che se ne può trarre), alle modalità spesso antitetiche di gestire la rappresentanza delle sue diverse componenti nei Forum del terzo settore dove abbiamo a volte, per scelta, rappresentanze paritetiche tra Coop, ApS e OdV e a volte forti sbilanciamenti verso le reti nazionali di ApS, stante una stabilità bi o tripartita della rappresentanza cooperativa. Ancora si va dalle associazioni presiedute da parlamentari di maggioranza chiamate ai tavoli di confronto col Governo (vedi alcune recenti nomine in un importante ente statale) a quelle che vedono candidato al Parlamento il proprio presidente che non pensa di dimettersi e, una volta non eletto, resta al suo posto. Ancora il fenomeno delle “holding”, ovvero gruppi che si articolano formalmente sotto più vesti, essendo parallelamente cooperativa, e/o ApS, e/o OdV… singolarmente o all’interno di cartelli (a seconda delle situazioni e convenienze) o che in alcuni casi si danno strutture di rete non perché le pratichino realmente e ne incarnino i valori ma in funzione delle dinamiche applicative della Riforma del terzo settore, vedi la recente “corsa” a creare reti che garantiscono finanziamenti ad hoc e accesso alla rappresentanza.

Vizi privati e pubbliche virtù ? .. nulla di nuovo, ma tra disintermediazione e vizi privati la “società di mezzo” non se la passa sempre bene.

Un caso studio di estremo interesse, e che qui per brevità non possiamo affrontare, è quello della disabilità in cui il vecchio modello dell’associazione governata da genitori e organizzata per patologia, si intreccia con altri molteplici modelli “associativi” (associazioni governate sostanzialmente da operatori, il fenomeno dell’attivismo che ha i follower nella pagina social al posto dei soci, le mille piccolissime associazioni riferite alle migliaia di patologie rare esistenti, e altro ancora) stanti anche i forti interessi che il settore attualmente gode sia dalla politica che dal mercato. In tema di rappresentanza è interessante anche l’articolarsi associativo in due grandi federazioni nazionali, Fish e Fand, che hanno alle spalle radici e storie diverse. Le due federazioni, per i motivi che sono già stati in parte accennati, sono alle prese, tra luci ed ombre, con il non facile rapporto con la politica romana, anche se con stili profondamente diversi. Nel concreto due sono le dinamiche da considerare ragionando di rappresentanza. La prima è che i disabili sono rimasti gli ultimi “buoni” nel sociale, a fronte dei tanti cattivi, migranti e rom in testa, su cui “picchiare duro”, vedi i talk show serali di Rete4 o le politiche di inasprimento delle pene nell’ambito giudiziario (non è un caso inoltre che da alcuni anni siano spariti dalla scena mediatica i cosidetti falsi invalidi). La seconda, di tipo generale e non specificatamente connessa all’area disabilità, è la nascita o ristrutturazione di un associazionismo culturalmente più orientato verso il centro destra che possa sedere ai tavoli, da una parte, ma sostanziare anche l’esistere della cosiddetta destra sociale dall’altra.

Questo secondo ragionamento ci fa entrare nel vivo delle foschie che spesso avvolgono il costruire rappresentanza nel terzo settore, della delicatezza dei rapporti con la politica, della estrema relatività con cui si valuta la rappresentanza effettiva delle varie sigle, degli elementi confusivi introdotti dalla riforma del terzo settore che, usando le parole di Carlo Borzaga “.. tende a imprenditorializzare l’intero Terzo settore invece di spingere verso una migliore articolazione interna tra organizzazioni imprenditoriali, come le imprese sociali, e organizzazioni non imprenditoriali. In tal modo la riforma rischia di appannare la specificità delle organizzazioni di volontariato sottovalutandone le funzioni di tipo non produttivo” (10). Infine anche la mancanza di dati sul volontariato, ormai da quasi un ventennio, annacquati all’interno dell’universo no profit di ISTAT, che va ben oltre il terzo settore (comprendendo partiti, sindacati, enti ecclesiali, organismi datoriali, ordini professionali…), non aiuta ad avere elementi per ragionare di rappresentanza anche con i numeri (11). A questo, ragionando dalle parti del dibattito più accademico, va notato anche che in Italia le riflessioni sul terzo settore viaggiano spesso separate dal quelle sui movimenti sociali, a riprova di quanto si diceva prima in termini di caratteristiche italiane del dibattito e delle dinamiche in corso di depoliticizzazione della figura del volontario. (12)

Accanto alle ombre ovviamente ci sono anche generosi tentativi, non immuni da rischi, di innovare i rapporti tra volontariato e politica e le relative rappresentanze, basti pensare ai vari cartelli di “Alleanza” o “Forum” (Asvis, povertà, non autosufficienza…) e alle dinamiche relative ai regolamenti sui beni comuni approvati da tante amministrazioni comunali e agli indirizzi di co-programmazione e co-progettazione. Modalità innovative che coesistono, in una logica del doppio binario, inevitabilmente fatta da luci ed ombre, con le forme classiche dei coordinamenti e delle consulte che sono forse quelle più in difficoltà stante lo svuotamento di senso e di operatività dei consigli comunali in atto ormai da tanti anni.

La rappresentanza e i suoi affluenti

Dora riparia, Dora baltea, Ticino, Adda, Oglio, Mincio…era la cantilena alle elementari prim,i anni ‘60 sugli affluenti del Po. Cosa impatta sulla costruzione di rappresentanza ciò che affluisce da altre dinamiche? Un elenco appena accennato:

– Nuove forme di partecipazione volontaria dentro le dinamiche della “social innovation”: focus sui passaggi da spazio a luogo nelle “rigenerazioni”, cambio di paradigma, dalla gratuità alla reciprocità (13), nuovo protagonismo della parola “comunità” dentro le “città intelligenti” (..inclusive, sostenibili…). In estrema sintesi e semplificando enormemente, il “volontariato dei beni comuni” nato nell’epoca della crisi della partecipazione politica e della svalorizzazione dei corpi intermedi. Il costruire rappresentanza deve tenere conto di un vocabolario rinnovato e più complesso.

– La difesa dei diritti e la dimensione del conflittocontinuano a calare gli indicatori di un terzo settore come soggetto che si occupa esplicitamente della difesa dei diritti e sa assumersi anche l’onere del conflitto che a volte questo richiede (14). I dati ISTAT sulle organizzazioni non profit, pur con tutte le ambiguità già citate sull’asse nonprofit/terzo settore, lo confermano. Un trend comunque, riferito al solo volontariato, che già emergeva nelle indagini Fivol del 2006/8. Tenere assieme, se serve, conflitto e rappresentanza, senza che l’uno escluda l’altra.

– Le migrazioni di dirigenti e quadri tecnici: le migrazioni dei dirigenti associativi verso la politica dei decenni scorsi paiono aver prodotto, salvo rari esempi, luci ed ombre ed è difficile valutare il saldo tra ciò che si è perso (nel volontariato) e ciò che si è acquisito (nella politica), non tanto e non solo in termini di capacità personali, ma di assetto, senso del (tormentato) rapporto tra politica e cosiddetti corpi intermedi. A questa si deve aggiungere in una certa misura anche la parallela migrazione di molti quadri delle associazioni di volontariato verso una dimensione lavorativa presso i Centri Servizio Volontariato e relativi costi/benefici di cui abbiamo scritto sopra. Questi fatti hanno anche influito sull’evolversi verso un ruolo di rappresentanza del volontariato da parte dei CSV centri di servizio per il volontariato e del loro coordinamento nazionale (CSV Net), che sarebbero in teoria organismi tecnici.

– Corpi e bacchette: circa i corpi intermedi la politica attuale, nel suo percorso di semplificazione e disintermediazione, tende a depotenziarli e a marginalizzarli, quindi molti soggetti del terzo settore e del volontariato pur di restare “corpo” rinunciano ad essere “intermedi” o a gran parte della loro intermedietà, che è il luogo dove si genera solidarietà e gratuità nello specifico del volontariato e rappresentanza. Prendete una bacchetta flessibile ai cui estremi ci siano la politica e i cittadini e, in mezzo, ovviamente, ciò che è intermedio. Se il vertice politica spinge verso il basso la bacchetta si flette a partire dal fulcro dei cittadini; gli estremi si avvicinano e si toccano e la parte di mezzo si allontana, continuando ad esistere, ma perdendo il suo essere snodo intermedio. Raddrizzare la bacchetta o trovare altre vie per la intermedietà? Questa una delle sfide più importanti per un volontariato che voglia avere anche una dimensione politica che non esiste senza una capacità reale di rappresentanza..

– Riavvicinare le generazioni del volontariato attraverso la condivisione dei fili comuni e la comprensione dei linguaggi: i 60/70enni: dall’emergere del volontariato “moderno” alle parole di Gaber già citate. I 40/50enni: negli anni ’90 post muro di Berlino, la crisi di rappresentanza di partiti e sindacati portò all’esplosione del fenomeno del volontariato, prima, e del terzo settore poi, con relativo corollario di un nuovo vocabolario (…non profit, finanza etica, impresa sociale), dentro ad una idea di società civile come collante che permetteva alla società di resistere e ri-esistere e ad una via italiana al terzo settore fin da subito più economicistica che sociologica.

I 20/30enni: nell’era del compimento della dissoluzione delle rappresentanze, in particolar modo il venir meno di quelle date dal lavoro e dalla appartenenza politica e dei relativi luoghi, un nuovo vocabolario si affaccia all’orizzonte confrontandosi, scontrandosi con quello/i precedenti (beni comuni, democrazia digitale, social innovation, attivismo…).

A proposito di social innovation, sia nella prospettiva dell’incontro tra generazioni, sia per capire meglio le nuove forme di volontariato legate, semplificando, ai “beni comuni”, mi pare che facciano riflettere le parole che usa Aldo Bonomi quando parla del ruolo della innovazione sociale nella costruzione di comunità: “La prima condizione è che l’innovazione sociale provi a uscire dall’allure tecnologica o dal ritualismo delle tecnicalità progettuali orientate all’innovazione dei mezzi, promuovendo invece l’innovazione dei fini sociali e di produzione di senso collettivo. Sempre più da ricostruire nella società della potenza dei mezzi di fronte all’incertezza dei fini” (15)Costruire rappresentanza per avere attenzione ai fini e non solo ai mezzi.

Tra i mille nodi del costruire rappresentanza forse il tema del lessico mi pare quello ineludibile, un po’ come la conquista del linguaggio è fattore decisivo per la crescita e sviluppo di ogni bambino.

Note

(1) G. Cotturri, La transizione lunga, Editori riuniti, 1997; A. Bonomi, Il trionfo della moltitudine, Bollati Boringhieri, 1996

(2) Giorgio Gaber, La libertà, 1972 https://www.youtube.com/watch?v=j3vowbyQBiQ

(3) M. Revelli, Oltre il ‘900, Einaudi, 2001; S. Fiori, Il militante diventa volontario, Repubblica 26 gennaio 2001
(4) A. Bassi, S. Stanzani, Il volontariato in E. Romagna, Fivol, Roma, 1997

(5) A. Cardoni, G. Sensi, Sono militanti non chiamateli volontari, Vita, 30 novembre 2012

(6) Stefano Laffi, Il volontariato che cambia, addio militanza, benvenuto attivismo, in, Che fare, 1/8/2018

(7) M. Ambrosini, Volontariato post moderno, Franco Angeli, 2016

(8) Scuola di Azioni Collettive, La formazione pubblica. Intervista a Corinne Reier (Action Aid Italia), a cura Fondazione Innovazione Urbana, Comune di Bologna, 2/6/2021

(9) C.Testini, ARCI, E’ questo il tempo delle Transizioni Giuste, redattoresociale, 15/11/23

(10) C. Borzaga, L’imprenditorializzazione del volontariato e dell’intero Terzo settore, in (a cura di) R. Frisanco, La solidarietà è reato? Le nuove profezie del volontariato, CSV Lazio, 2020

(11) R. Frisanco, Censimento e indagine campionaria Istat sulle istituzioni non profit (2020-2021): primi risultati, Impresa sociale, 21/5/2023

(12) S.Busso, terzo settore e politica, appunti per una mappa dei temi e degli approcci, Polis, 2, 2020

(13) R. Frisanco, Il volontariato del nuovo millennio tra crisi e cambiamento, Rosso fisso, 2021

(14) S. Busso, E.Gargiulo, Una società armoniosa? Il posto del conflitto nelle pratiche e nel discorso sul Terzo Settore, Cartografie sociali, n. 3, maggio 2017

(15) A. Bonomi, Un’alternativa alle appartenenze in cerca di senso, Il Sole24h, 11/8/2020

 

 

 

[Il presente articolo è apparso per la prima volta sulla rivista Appunti sulle politiche sociali, n.4, 2023, curata dal gruppo Solidarietà di Moie di Maiolati (An) https://www.grusol.it . Lo si riprende qui per gentile concessione e con alcune integrazioni e modifiche]

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